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Le Religioni in Italia

Massimo Introvigne – PierLuigi Zoccatelli (sotto la direzione di)

 

LA QUESTIONE DELLE “SETTE”

La nostra ricerca – in conformità, come si è accennato, ai più autorevoli modelli statunitensi – non distingue fra “sette” e “religioni”. La sociologia delle religioni delle origini si era proposta di definire in termini obiettivi la differenza fra “Chiese” e “sette”. Nei primi decenni del secolo XX, il teologo e sociologo protestante Ernst Troeltsch (1865-1923) propone la sua famosa distinzione fra: il tipo-Chiesa, un gruppo religioso in armonia con la società circostante; il tipo-setta, un gruppo religioso che contesta la società circostante; e il tipo-mistico, un gruppo religioso che s’interessa scarsamente della società circostante, preferendo concentrare la sua attenzione sull’auto-perfezionamento dei suoi membri. Queste categorie, con integrazioni e modifiche, sono rimaste al centro del dibattito sociologico per diversi decenni e sono tuttora utilizzate da alcuni. Tuttavia, la situazione sociologica si è andata complicando e ha messo in crisi alcuni presupposti fondamentali della tipologia proposta da Troeltsch. I movimenti, anzitutto – come dice il loro nome –, si muovono: per esempio i mormoni – certamente “setta”, nel senso di Troeltsch, nel secolo XIX – apparivano nel secolo XX come ormai perfettamente integrati, almeno nella loro società statunitense di origine. Dopo la Seconda guerra mondiale si aggiunge la crescente visibilità di gruppi religiosi di matrice non cristiana, particolarmente orientale, anch’essi popolarmente chiamati “sette”, ma molto diversi dalle “sette” di origine cristiana che erano servite da modello a Troeltsch. Infine, un terzo elemento nuovo era, ed è, costituito dalla cosiddetta “esplosione delle sette” in America Latina, dove tuttavia nel linguaggio cattolico per “sette” s’intendono quasi sempre anche i gruppi protestanti di tipo evangelico e pentecostale, che in altre regioni del mondo non sono definiti come “sette” e che comunque presentano caratteristiche diverse rispetto al modello di Troeltsch.

Questi elementi nuovi hanno fatto emergere una serie amplissima di proposte terminologiche da parte di sociologi, di teologi e – in misura minore – di psicologi. In campo sociologico, una delle proposte più note era stata formulata nel 1985 da Rodney Stark (1934-2022) e da William Sims Bainbridge nel loro volume The Future of Religion. Secularization, Revival, and Cult Formation (University of California Press, Berkeley-Los Angeles-Londra 1985). I due sociologi distinguevano fra “sette” ‒ “gruppi religiosi devianti all’interno di una tradizione non deviante” ‒ e “culti”, “gruppi religiosi devianti all’interno di una tradizione deviante” (ibid., pp. 24-26). Così, per esempio, i Testimoni di Geova e i mormoni sarebbero “sette” in quanto adottano il sistema di simboli e molti punti di riferimento di una tradizione “non deviante” come quella cristiana, anche se le loro idee sono considerate “devianti” dagli altri gruppi che si situano all’interno di questa tradizione. Gli Hare Krishna sarebbero invece un “culto” perché – almeno in Occidente – non solo sono considerati come “devianti” in quanto gruppo, ma la stessa tradizione religiosa – orientale – da cui traggono i loro riferimenti e simboli è percepita come estranea ed esotica dalla società circostante. In seguito, peraltro, gli stessi Stark e Bainbridge hanno invitato a servirsi di terminologie diverse, perché il dibattito è stato ulteriormente complicato dall’uso di espressioni come “setta” e “culto” in un senso non sociologico o teologico, ma criminologico.

Soprattutto dopo i tragici avvenimenti che hanno coinvolto alcuni gruppi definiti “sette” – tra cui i suicidi-omicidi dell’Ordine del Tempio Solare negli anni 1994, 1995 e 1997; l’attentato al gas compiuto nella metropolitana di Tokyo nel 1995 da seguaci della Aum Shinrikyo; il suicidio di quasi tutti i membri del culto dei dischi volanti Heaven’s Gate nel 1997; i suicidi e gli omicidi del gruppo “cattolico di frangia” Restaurazione dei Dieci Comandamenti di Dio in Uganda nel 2000 – giornalisti, criminologi e anche alcune commissioni parlamentari europee sono andate alla ricerca di un criterio, o di una serie di criteri, per distinguere fra “sette” pericolose e gruppi “religiosi” innocui. Particolarmente in Francia e in Belgio i risultati di queste indagini parlamentari – che hanno insistito sulla nozione, a sua volta vaga, contestata da molti specialisti accademici e difficile da definire, di “manipolazione mentale”, talora usata come sinonimo di quella, ancora più controversa, di “lavaggio del cervello” – non sono stati giudicati particolarmente soddisfacenti da molti studiosi. Le critiche sono state vivaci soprattutto quando, insieme ai rapporti, le commissioni parlamentari hanno proposto lunghe liste di “sette pericolose”, o comunque di gruppi presi in esame, dove sono comparse anche realtà rispettate e rispettabili, tra cui movimenti cattolici riconosciuti dalla Chiesa di Roma. Altri rapporti europei – pure nati dalle stesse preoccupazioni e pubblicati negli anni seguenti – come quello della Commissione d’inchiesta parlamentare tedesca, del 1998, e il successivo di una commissione governativa svedese, pure del 1998 – si sono mostrati assai più cauti e hanno ritenuto impossibile fissare una linea di demarcazione precisa fra “sette” pericolose e “religioni” legittime.

Senza approfondire qui il merito di queste controversie, le quali partono dal problema molto reale dei crimini – talora gravi o gravissimi – commessi da alcuni gruppi che a vario titolo si presentano come religiosi, è evidente che – in seguito a tali discussioni – la parola “setta” ha assunto, particolarmente in Europa, due diversi significati, che si sovrappongono. A un significato criminologico secondo cui la “setta” è un gruppo religioso – o che si pretende tale – pericoloso, di cui si può dire con un certo grado di probabilità che commetterà reati e crimini di maggiore o minore gravità, fa da pendant un significato di tipo sociologico, secondo cui la “setta” è semplicemente un gruppo religioso le cui idee sono piuttosto diverse rispetto a quelle condivise dalla maggioranza dei consociati. Tutto questo crea notevole imbarazzo presso gli studiosi e anche rischi per la libertà e la tolleranza religiosa. Quando a uno studioso – per esempio in un’intervista televisiva – si chiede se questo o quell’altro gruppo è “una setta”, si vuole in realtà sapere da lui se il gruppo è “pericoloso” o potrà commettere dei crimini. L’intrecciarsi fra significato criminologico e significato sociologico del termine crea qui una pericolosa ambiguità. Se per esempio uno studioso risponde a un intervistatore che i mormoni sono una “setta” – risposta in tesi corretta con riferimento alle categorie di Troeltsch – il rischio è che chi lo ascolta alla televisione si convinca che i mormoni sono un gruppo “pericoloso”, il che è certamente falso e ingiusto.

È per ragioni di questo genere che – mentre i giornalisti, i criminologi e chi desidera mettere in guardia l’opinione pubblica nei confronti dei pericoli delle “sette” continuano a utilizzare questo termine – gli studiosi hanno preferito a lungo parlare di “nuovi movimenti religiosi” o “nuove religioni”. Molti chiamano “nuove religioni” i gruppi più grandi e consolidati come i mormoni o i Testimoni di Geova – le cui dimensioni superano ormai quelle di un semplice movimento – e invece “nuovi movimenti religiosi” le realtà più piccole o di origine più recente. La stessa Chiesa cattolica, in alcune sue autorevoli espressioni, ha tenuto conto delle preferenze degli studiosi. La Relazione generale La sfida delle sette o nuovi movimenti religiosi: un approccio pastorale del cardinale Francis Arinze al Concistoro straordinario del 1991 – che aveva appunto questo fra i temi all’ordine del giorno – raccomandava “di adottare un termine che sia il più imparziale e preciso possibile”, almeno “finché non vi sarà una terminologia universalmente accettata”, e sceglie di usare “in generale il termine ‘nuovi movimenti religiosi’ (abbreviato in NMR) perché è neutrale e abbastanza generale”. Peraltro, dubbi sono stati recentemente sollevati in alcune sedi scientifiche anche su categorie come “nuovi movimenti religiosi” e “nuove religioni” che pure alcuni degli autori hanno usato per anni, e che continuano a essere usate – e lo saranno, quasi inevitabilmente, in futuro – per designare cattedre o associazioni scientifiche, CESNUR compreso.

Nel febbraio 2012 un importante saggio del sociologo David G. Bromley e del già citato J. Gordon Melton ha proposto di distinguere le religioni e i movimenti sulla base del grado maggiore o minore di alignment, cioè di congruenza con i valori dominanti nella società, in dominanti, “settarie” – sectarian, espressione che in inglese non ha un valore particolarmente spregiativo –, alternative ed emergenti. Le religioni dominanti hanno acquisito questo status dopo decenni di rapporti non sempre idilliaci, ma ultimamente collaborativi con le istituzioni. Le religioni “settarie” non hanno gravi contrasti con le istituzioni sociali, ma a causa di peculiarità teologiche, non sono considerate ortodosse dalla loro tradizione religiosa di origine. Le religioni alternative sono quelle dominanti in altre società, ma che hanno difficoltà a essere pienamente accettate quando – grazie a immigrati o a convertiti – si trasferiscono in un’altra area geografica: è il caso dell’induismo o del buddhismo in Occidente. Le religioni “emergenti” infine costituiscono quel gruppo disparato e residuo di denominazioni e movimenti che hanno un grado molto basso di alignement con i valori e le istituzioni dominanti (cfr. D. Bromley – J. G. Melton, “Reconceptualizing Types of Religious Organization: Dominant, Sectarian, Alternative, and Emergent Tradition Groups”, Nova Religio: The Journal of Alternative and Emergent Religions, vol. 15, n. 3, febbraio 2012, pp. 4-28). L’espressione “religioni emergenti”, usata del resto nella stessa testata della rivista specializzata che ha ospitato il saggio, ha certo il vantaggio di non implicare alcun giudizio di valore. Ma neppure questa risolve, evidentemente, tutti i problemi, e gli autori ammettono che le religioni e i movimenti nella loro storia si spostano, talora molto rapidamente, da una casella all’altra.

Dove si situa il confine fra “nuove” – o “emergenti” –  e “vecchie” religioni è infatti sempre meno chiaro: gli Hare Krishna, per esempio, sono una forma contemporanea di un movimento devozionale indiano cinquecentesco o un nuovo movimento religioso? Dopo quanti anni o secoli di vita religioni che contano svariati milioni di aderenti come Tenrikyo, i mormoni o i Testimoni di Geova devono smettere di essere chiamate “nuove”? Se si considerano “nuove” le religioni nate nell’Ottocento, perché non sono invece “nuove” quelle di origine settecentesca? Alcuni degli autori di quest’opera hanno suggerito, almeno in Occidente, di intendere “nuovo” in senso dottrinale e non meramente cronologico: ma quanti sociologi della religione, legati a un accostamento laico e value-free, sono disposti ad adottare criteri di carattere dottrinale in cui potrebbero nascondersi valutazioni teologiche? Per questa ragione, l’opera che presentiamo – seguendo i più autorevoli e recenti modelli statunitensi – non solo non utilizza la categoria “sette”, ma neppure identifica “nuove religioni” o “nuovi movimenti religiosi”, se non in un contesto particolare, quello giapponese, dove l’espressione “nuove religioni” ha un senso accettato e specifico. Un esame caso per caso delle evoluzioni, degli scismi, delle ricomposizioni all’interno di unità identificate come famiglie spirituali, se è certo più faticoso e difficile, può rivelarsi anche più fruttuoso.

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