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Le Religioni in Italia

Massimo Introvigne - PierLuigi Zoccatelli (sotto la direzione di)

L’ISLAM SUNNITA: UN’INTRODUZIONE

islam

L’Arabia pre-islamica

Le origini dell’Islam affondano nell’Arabia pre-islamica, che corrispondeva a un grande e irregolare trapezio posto a Sud-Est dei possedimenti bizantini dell’Asia minore occupati oggi da Libano, Siria, Israele, Giordania: un vasto territorio proteso verso l’Oceano Indiano e costeggiato a Ovest dal Mar Rosso e a Est dal Golfo Persico. La regione si presenta florida solamente lungo le coste e come un grande tavolato desertico al centro. Ricche civiltà quali quelle dei Nabatei, o i regni di Saba e di Palmira, con la conquista da parte dei Romani iniziano un inarrestabile processo di decadenza finendo per scomparire del tutto, frantumandosi in variegate comunità e tribù di “beduini”. Il termine deriva da badw (deserto) e indica appunto coloro che vivono nel deserto, praticando l’allevamento e il commercio carovaniero. Denominatore comune delle comunità arabe rimaneva la convinzione di discendere da Ismaele, figlio di Abramo e della schiava Agar.

Pur considerandosi come fratelli di razza, le tribù godevano di piena autonomia sociale, riconoscendo come proprio capo lo sceicco (shaykh), autorità politica, giuridica e religiosa, eletto dagli anziani e scelto fra i membri delle famiglie più influenti. Il mondo arabo, poliedrico dal punto di vista politico, era tale anche per l’aspetto religioso. Nel comune quadro politeistico, al Sud si adoravano divinità che costituivano la personificazione dei pianeti, mentre al Nord vi era una moltitudine di divinità poiché quasi ogni tribù ne aveva una propria. Inoltre si venerava un numero infinito di spiriti che abitavano il mondo vegetale e minerale. Tutti erano sottomessi a una divinità comune, uno spirito supremo chiamato Allâh (il Dio). Fondamentale era il culto agli spiriti delle pietre sacre, che erano sempre portate con sé dalla tribù durante i suoi spostamenti, e che erano di difesa contro pericoli di ogni genere. Quando la tribù si fermava era deposta la pietra sacra (betilo) in un luogo centrale: vi era costruito intorno un piccolo santuario che diveniva in breve luogo di culto e meta di piccole processioni.

Il più sacro fra tutti questi betili era la “Pietra Nera” della Mecca, un piccolo meteorite collocato in un angolo della Ka’ba, piccolo tempio pre-islamico considerato la casa di tutte le divinità del pantheon arabo (i musulmani ritengono oggi che la Ka’ba sia stata costruita da Abramo e dai suoi figli e, dopo l’avvento dell’Islam, la “Pietra Nera” è divenuta un semplice oggetto tradizionale di devozione). La Ka’ba e la Pietra Nera erano meta di pellegrinaggi per tutti gli arabi che, di anno in anno, si ritrovavano in date prestabilite e per tre giorni praticavano i loro riti, per poi dedicarsi liberamente a fruttuosi scambi commerciali. La consuetudine, radicatasi col tempo, aveva permesso alla Mecca, posta lungo la Via dell’incenso, di diventare la città araba più importante, con una classe dominante che era ormai sedentaria e si era arricchita con i commerci e con il controllo che esercitava sul santuario.

Questo sistema, quasi oligarchico, era nelle mani della tribù dei Quraysh che, nel VI secolo, interessata all’accrescersi del suo potere, andava intensificando i trattati con altre tribù e delimitando un territorio sempre più vasto intorno alla Mecca per vincolarlo alle proprie attività commerciali. Contemporaneamente cercava di accrescere la propria supremazia propugnando il culto di certe divinità che avevano sede nella sua città, quale quello per le tre dee Manât (la signora del destino), al-Lat (la dea della fecondità), e al-‘Uzza (la potente). Accanto a questo mondo religioso multiforme vanno ancora considerati gli influssi esercitati dalle fiorenti comunità ebraiche e cristiane che vivevano in Siria, Giordania, Israele e che soggiornavano spesso nei centri arabi per motivi commerciali. Pur non avendo documentazioni certe sulla conoscenza del credo monoteista ebraico e cristiano da parte degli arabi, è indubbio che molte tribù avevano sentito raccontare brani biblici ed evangelici da mercanti e pastori e ne avevano subito influenze.

Muhammad

Proprio alla Mecca, nel VI secolo e nel clan dei Quraysh, nasce Muhammad (Abû Ibrâhîm Muhammad ibn ‘Abd Allâh ibn ‘Abd al-Muttalib ibn Hâshim, c. 570-632). Le notizie circa la sua vita sono piuttosto scarse: l’unica fonte attendibile è il Corano stesso, cui seguono alcune biografie redatte più di un secolo dopo la sua morte. L’anno stesso della nascita di Muhammad è incerto: secondo alcuni nasce nel 570, l'”anno dell’elefante”, per altri verso il 571, altri ancora indicano genericamente il decennio 570-580. Muhammad nasce alla Mecca, una delle tre città principali dell’Higiaz (le altre due erano Yatrib – poi chiamata Medina – e At-Ta’if) nel clan quraishita dei Banu-Hâshim, tradizionalmente dediti al commercio di cammelli. Il padre muore poco prima della sua nascita, e anche la madre lascia il figlio orfano in tenera età, a soli sei anni. Muhammad è quindi affidato a parenti, in particolare al nonno paterno ‘Abd al-Muttalib, che educa il giovane nipote al commercio.

Morto anche il nonno, il giovane Muhammad passa sotto la tutela dello zio Abû Tâlib (†619), con il quale compie numerosi viaggi nella penisola arabica e verso Oriente; si spinge fino in Siria e forse in Palestina. A causa di un improvviso rovescio finanziario la famiglia si riduce dall’agiatezza in povertà e Muhammad entra al servizio di una ricca vedova, Khadîjah (†619), che aveva preso il posto del defunto marito nella conduzione dell’attività commerciale della famiglia e che presto diventa sua moglie nonostante il grande divario di età (lui circa venticinque anni, lei circa quaranta). Da lei avrà quattro figlie e tre figli. Durante le sue attività commerciali Muhammad entra in contatto con comunità cristiane del deserto e con vari nuclei giudaizzanti. Fra i trenta e i quarant’anni matura una profonda crisi religiosa e si interroga a fondo su Dio e sulla sua natura.

Era solito ritirarsi per alcuni giorni di meditazione in grotte sui monti intorno alla Mecca. Proprio durante uno di questi ritiri riceve la rivelazione celeste sulla vera natura della divinità e dei suoi rapporti con il mondo creato. Infatti il giorno 27 del mese di ramadân dell’anno 610 durante un breve ritiro sul monte Hira’, di notte, gli appare l’arcangelo Gabriele e gli rivela con irresistibile chiarezza l’unità-unicità di Dio. La prima parola della nuova rivelazione è “Leggi” e questa parola, in arabo iqra’, è fondamentale perché la sua radice è la stessa di Qur’ân (Corano), che significa appunto lettura, recitazione, o predicazione. Le rivelazioni divine continueranno nei ventidue anni seguenti prima a Mecca, poi a Medina, quasi fino alla morte di Muhammad, nel 632.

I primi seguaci di Muhammad sono piccoli artigiani e commercianti, umili pastori e schiavi, in aperta polemica con la situazione di ingiustizia e corruzione dilagante nel mondo arabo. La classe benestante e conservatrice quraishita oppone una rigorosa resistenza alle innovazioni coraniche, perseguendo il nuovo profeta con vessazioni, messe in ridicolo, boicottaggi, arrivando fino a un tentativo di assassinio. Infatti, morto lo zio Abû Tâlib, era diventato capo del clan (dei Banu-Hâshim) Abû Lahab, altro zio paterno del Profeta ma suo acerrimo nemico. Questi ottiene dai maggiorenti della città il suo allontanamento dal clan. In un primo tempo Muhammad cerca nuovi consensi nella vicina città di At-Ta’if, dove non ha successo. È quindi costretto ad abbandonare la Mecca (su invito di alcuni mercanti che gli chiedono di fare da paciere fra le tribù le cui liti minavano i fiorenti commerci) per rifugiarsi, nel 622, a Yatrib. Dopo avere ottenuto l’adesione alla nuova fede e l’ubbidienza dei cittadini, il Profeta accetta di trasferirsi a Yatrib e la città prende il nome di Medina, ovvero al-Madina, cioè “città del Profeta”.

Il 622 è un anno chiave nel mondo musulmano; nel suo corso avviene il trasferimento di Muhammad da Mecca a Medina (“Egira”) e sarà considerato l’anno zero della nascente religione. A Medina il Profeta definisce la struttura della futura società musulmana. È di questo periodo la Costituzione di Medina giunta a noi con modifiche successive, ma integra nel suo nucleo centrale, ovvero l’unità fra Stato e religione. Per il mondo musulmano – ieri come oggi – l’Islam è regola fondamentale sia per il rapporto religioso sia per il contesto politico. Nella Costituzione si ratifica l’iniziale patto di alleanza stabilito fra le popolazioni locali e la comunità dei credenti (umma). Le prime, denominate ansâr o meglio “aiutanti”, si impegnano al mantenimento verso i seguaci di Muhammad chiamati al-muhâjirûn, ovvero “coloro che sono emigrati”. In questo patto Muhammad è riconosciuto come nabî, cioè come profeta che ha ricevuto una rivelazione scritta e come capo politico. Sempre nello stesso testo di alleanza gli altri abitanti (ebrei e cristiani) presenti nella città sono chiamati dhimmî, ovvero “protetti”, e quindi considerati in una posizione non di parità bensì di sottomissione verso le tribù arabe.

Dopo vari scontri con gruppi meccani, decisi a eliminare Muhammad e i suoi seguaci, nel gennaio del 630 il Profeta può rientrare vittorioso alla Mecca dove, avanzando maestoso verso la Ka’ba, proclama l’inizio della nuova era di Dio (in arabo Allâh). Tornato a Medina intraprende l’ultimo viaggio verso la Mecca nel 632. Compiuti i riti previsti, il Profeta ritorna a Medina in condizioni di salute abbastanza precarie. Qui l’8 di giugno del 632, muore assistito dalla moglie prediletta ‘A’ishâ (614?-678), e senza avere designato chiaramente un successore.

I primi califfi e le divisioni interne

La questione della successione causa i primi grandi problemi dell’ancora giovane comunità islamica. Vi sono fazioni con interessi diversi: in primo luogo la classe dirigente della Mecca, che rivendica la priorità nella scelta del capo politico e religioso della nuova realtà nazionale; dall’altra i compagni del Profeta della prima ora i quali, avendo subito offese e persecuzioni, mal sopportano i convertiti degli ultimi anni e rivendicano per sé il diritto di nominare il legittimo successore. Vi sono inoltre divisioni tribali da sedare, e ancora i familiari del Profeta che vogliono scegliere al loro interno il legittimo successore. La prima scelta cade infine su Abû Bakr “il Veridico” (570-634), che governa dal 632 al 634. Suocero del Profeta in quanto padre dell’amata ‘A’ishâ, inizia nel 633 l’espansione militare verso la Persia. Abû Bakr rappresenta un compromesso momentaneo, e gli sciiti inizieranno da lui le loro polemiche poiché lo accuseranno di avere rifiutato a Fâtimah (605?-633), la figlia prediletta del Profeta, l’eredità paterna dell’oasi di Fadak, e di avere quindi dato inizio alle discriminazioni verso la legittima discendenza di Muhammad.

Lo stesso Abû Bakr – nel 634 – designa a succedergli ‘Omar (591-644), che governa dal 634 al 644. ‘Omar si era convertito dopo l’Egira ed era stato consigliere politico di Muhammad e abile diplomatico. Era anche lui suocero di Muhammad in quanto questi ne aveva sposato la figlia Hafsa. ‘Omar si sforza di costruire un califfato unitario e centralizzato dotando la comunità di istituzioni in campo politico e religioso, e formulando regole nell’ambito dei costumi. Conquista la Siria, entrando in Damasco, e occupa nel 638 Gerusalemme. Fonda Bassora, smembrando l’impero persiano dei Sassanidi e occupandone la capitale Ctesifonte. Conquista l’Egitto e la Nubia. Pugnalato nella moschea di Medina nel 644, gli succede ‘Othman (†656), che governa dal 644 al 656. Uomo di notevoli ricchezze, aveva sposato due figlie di Muhammad. Opera una radicale modernizzazione delle forze arabe munendole di una efficiente flotta che presto diventa un pericolo per i paesi cristiani nel Mediterraneo, tanto che nel 649 assalta e conquista l’isola di Cipro. Espande le conquiste fino al Caucaso e all’India e organizza una divisione amministrativa di quello che ormai era diventato un immenso impero. Cura la prima edizione integrale del Corano che diverrà il testo ufficiale della Rivelazione di Allâh. Accusato di nepotismo, anche lui muore di morte violenta, pugnalato dal figlio di Abû Bakr.

Dopo ‘Othman è proclamato successore del Profeta ‘Alî (†661), cugino e genero di Muhammad in quanto ne aveva sposato la figlia prediletta Fâtimah. ‘Alî è sostenuto da una coalizione piuttosto eterogenea nella quale emerge la corrente legittimista favorevole alla linea ereditaria. Il potere di ‘Alî è contrastato e sotto il suo governo si vanno a formare varie coalizioni che sostengono successioni alternative, soprattutto a opera dei potenti della Mecca sostenitori della famiglia degli Omayyadi, gli ultimi a riconoscere il Profeta ma i primi in questo momento dal punto di vista militare ed economico. I contrasti diventano sempre più acuti fino a giungere a uno scontro armato che trova il suo apice nel 661 durante la battaglia di Siffin, nella quale vediamo contrapporsi i sostenitori di ‘Alî e quelli della dinastia omayyade guidati da Mu’âwiya (605-680), governatore della Siria. Quest’ultimo, dopo avere sconfitto ‘Alî, prende il potere nel 661, pone fine al califfato elettivo e dà inizio alla propria dinastia. La capitale è spostata dalla Mecca alla più centrale Damasco. Nel 674 pone il primo assedio a Costantinopoli. Sotto i suoi successori l’impero raggiunge dimensioni enormi.

Nel 700 i musulmani arrivano allo stretto di Gibilterra, nel 711 sbarcano in Spagna, mentre nel 712 conquistano Bukhara, nell’Uzbekistan, e nel 713 Samarcanda. Nel 714 valicano i Pirenei. Se nel 732 sono fermati a Poitiers da Carlo Martello (688-741), e terminano così la loro espansione occidentale, in Asia minore la loro pressione continua sui confini dell’impero bizantino con i numerosi assedi posti a Costantinopoli fino alla sua caduta definitiva nel 1453. Da quella data il potere di Muhammad II (1432-1481) sarà libero di espandersi anche nei Balcani e nell’Europa orientale. Nel frattempo, nel 750, la dinastia omayyade era venuta meno a causa dei molti dissidi interni e, dopo un colpo di stato, aveva ceduto il posto alla dinastia abbaside che rivendicava la discendenza da Abbas (†653), zio del Profeta. Con loro l’impero arabo sposta la capitale a Baghdad e raggiunge il massimo del suo splendore. Nel 1258 Baghdad è conquistata dai mongoli. I principi abbasidi si trasferiscono in Egitto dove, dal 1260, mantengono il titolo di califfi – cui però non corrisponde un effettivo potere politico – fino al 1516, data in cui l’Egitto è conquistato a sua volta dagli ottomani mongoli. Questi ultimi rivendicheranno più tardi il califfato per i sultani del loro impero, ma questa rivendicazione non sarà esente da problemi.

La battaglia di Siffin, o meglio arbitrato di Siffin in quanto ‘Alî aveva convocato gli esponenti dei vari gruppi a un incontro diplomatico, rappresenta il momento centrale e culminante del dissidio all’interno della prima comunità islamica. Proprio di fronte a questo arbitrato si addiviene a una suddivisione in varie correnti all’interno del mondo islamico. Da questo momento in poi, pur mantenendo praticamente omogeneo il credo e la pratica religiosa, il mondo islamico rimane diviso fra tre campi, soprattutto per motivi politici: il sunnismo, che ancora oggi rappresenta il filone dominante e raggruppa circa l’ottantacinque per cento dei musulmani; lo sciismo, che sostiene che il capo della umma debba essere un discendente di Muhammad, e va diversificandosi in una miriade di sottogruppi; e il kharijismo, ridotto oggi a poco più di un milione di appartenenti.

Introduzione alla dottrina islamica

 Venendo a elementi di carattere dottrinale, secondo il “principe dei teologi”, al-Ghazâlî (1058-1111), le fonti delle scienze religiose sono tre:

1. il Corano o meglio Al-Qur’ânu-l-karîm (il Generoso Corano), la raccolta delle rivelazioni fatte dall’arcangelo Gabriele a Muhammad;

2. gli ahâdîth (sing. hadîth): il racconto dei fatti e dei detti del Profeta, lasciati a commento del Corano;

3. il consenso dei teologi o, per la legge, dei giurisperiti, intesi come rappresentanti della comunità islamica.

Il concetto di ispirazione divina del Corano è decisamente diverso da quello usualmente considerato nella tradizione cristiana per la Bibbia. Nel Corano ogni singola parola è di Dio e sacra in quanto è l’esatta trascrizione del Libro sacro che è in Cielo presso Dio. L’ortodossia islamica ammette l’eternità del Corano in quanto parola di Dio, ovvero uno dei suoi attributi, tutti eterni come Dio stesso. Anche se non è un’affermazione dogmatica, questa convinzione ha determinato una certa diffidenza verso le traduzioni del Corano in lingue diverse dall’arabo. I musulmani anzi parlano di traduzioni “del significato” del Corano, ma non del Corano stesso, parola di Dio. Per quanto concerne il mondo mediterraneo, solo nel 1976 il numero 12 della Risoluzione finale del Seminario per il dialogo islamo-cristiano di Tripoli ha incoraggiato la diffusione delle traduzioni del testo sacro nelle varie lingue nazionali.

Subito dopo la scomparsa dei primi quattro califfi accettati da tutta la comunità islamica, i cosiddetti “califfi ben guidati” (râshidûn), e con la conseguente rottura dell’unità della umma in sunniti e sciiti, è iniziata anche la riflessione sulla legittima interpretazione del Corano. Questo lavoro esegetico non è tanto rivolto agli aspetti teologici o mistici quanto piuttosto alla sharî’a, ovvero alla legge presente nel testo sacro e che deve essere applicata da tutti i fedeli. Per elaborare le norme specifiche si è quindi sviluppato il diritto o fiqh. La sharî’a rappresenta così il diritto positivo, mentre il fiqh costituisce l’insieme delle scienze giuridiche. Ben presto si sono formate, al riguardo, scuole di pensiero diverse, di cui quattro sono le più significative: la hanafita, che prende il nome dal suo fondatore Abû Hanîfa (699-767) e tende a fornire interpretazioni meno rigorose rispetto ad altre scuole; la malikita, da Mâlik ibn Anas (711?-796) conosciuto come l’imām di Medina, ispirata al criterio dell'”interesse generale” e particolarmente ostile al sufismo; la shafi’ita, fondata da Abdullâh ash-Shâfi’î (767-820), il maggior sistematizzatore del diritto islamico, che si preoccupa di definire con precisione i criteri del ragionamento per analogia onde evitare abusi interpretativi; e la hanbalita, fondata da ibn Hanbal (780-855), che nega il ragionamento analogico e propone un rigoroso sistema teocratico piuttosto intollerante verso le altre religioni e verso i dissidenti dell’Islam: è oggi la scuola giuridica dell’Arabia Saudita.

Parallelamente al dibattito giuridico si vanno ampliando le interpretazioni teologiche, soprattutto a proposito dei nomi di Dio. Nel mondo sunnita si riconoscono principalmente quattro scuole: la mu’tazilita, sorta nell’VIII secolo, che rappresenta l’ala più razionalista della teologia islamica e per certi versi quella più affine alle speculazioni di impostazione greca; la ash’arita, iniziata nel X secolo per opera di al- Ash’arî (873-935), che professa una via mediana fra il razionalismo e il letteralismo; la maturidita, fondata da al-Mâturîdî (840-944), che rivaluta l’uso della ragione ma inserisce aspetti nuovi; e la hanbalita (parallela alla scuola giuridica dello stesso nome), che si sviluppa in ambiente abbaside nella seconda metà del IX secolo: rappresenta una corrente radicalmente anti-razionalista che ha trovato un forte sostegno nella dinastia degli al-Saud, che ne ha fatto la scuola teologica dell’Arabia Saudita.

Vi sono alcuni elementi fondamentali che ogni musulmano ortodosso è tenuto a credere. Innanzitutto, Dio esiste e la prova della sua esistenza è la causalità efficiente a partire dal mondo contingente. La causa del mondo è Dio: è causa eterna, insostanziale, incorporea, che non sta in nessun luogo. Il concetto base del Corano è l’unità-unicità di Dio: Dio è uno in sé ed è unico, ovvero non ha associati. Questo elemento è più volte ribadito all’interno del Corano ed è sentito come molto forte in opposizione al cristianesimo, accusato di attribuire “associati” a Dio, ovvero Cristo e lo Spirito Santo. Questa unità-unicità è rigorosamente sancita dal Profeta nella formula Lâ ilâha illa ‘Llâh (“non vi è divinità se non Dio”), che rappresenta la prima parte della professione formale di fede o shahada. Gesù è visto come un grande profeta, l’ultimo dei profeti prima di Muhammad, ma non è Dio. È un uomo come gli altri, cui Allâh ha affidato una Rivelazione che poi i suoi seguaci hanno in parte frainteso e falsificato, in primo luogo divinizzando la sua persona. Maria è una donna privilegiata, una santa, che ha concepito in modo verginale Gesù, per volere di Allâh, ma che non può certamente essere associata a Dio come Sua sposa né esserne la madre essendo Dio assolutamente ingenerato.

La questione degli attributi divini ha suscitato innumerevoli discussioni all’interno dell’Islam fin dai primi tempi. Per alcuni (mu’taziliti), molto attenti a difendere il monoteismo più radicale, gli attributi sono esclusivamente dei modi dell’essenza divina e quindi si identificano con essa. Per altri invece gli attributi non si possono identificare con l’essenza divina, sono qualcosa di diverso, di ulteriore, ma non sono staccati dall’essenza bensì vi sussistono. Gli attributi secondo gli islamici più ortodossi sono quindi eterni come Dio. Oltre a sette attributi divini (potenza, scienza, vita, volontà, vista, udito e parola), nel Corano sono citati numerosi nomi di Dio, codificati convenzionalmente in novantanove e variamente usati anche in molte pratiche religiose. Prima fra tutte è il tasbîh, la glorificazione di Dio, operata soprattutto con l’ausilio di una specie di rosario, il subha, usato dai fedeli per ripetere i nomi più belli di Dio.

Il fedele musulmano deve pure credere nella resurrezione, in cui Dio “ridarà vita alle ossa polverizzate”. Tutti gli uomini risorti si raduneranno davanti ad Allâh per ascoltare la definitiva sentenza circa la loro salvezza o la loro dannazione. Questo giudizio universale non deve essere confuso con il giudizio che il defunto riceve immediatamente dopo la sua morte. Quando una persona muore ed è deposta nel sepolcro secondo la ritualità islamica, un folklore religioso diffuso afferma che riceve la visita di due angeli – Munkar e Nakîr – che devono verificare la sua fede e il suo corretto comportamento in vita. In primo luogo il defunto deve rispondere recitando con esattezza e sincerità di cuore la shahâda, ovvero la professione di fede. Quindi i due angeli procederanno a pesare su una bilancia le colpe e le buone azioni del defunto e a seconda che il loro giudizio sia stato negativo o positivo il suo soggiorno nella tomba fino al giorno della resurrezione e del giudizio universale sarà sgradevole o gradevole. Dopo il giudizio universale, fra i dannati gli infedeli rimarranno nell’Inferno in eterno, mentre i musulmani – secondo una dottrina accettata da una minoranza di teologi – vi resteranno per un tempo più o meno lungo, per saldare il debito di colpa, e quindi entreranno in Paradiso. Oltre agli angeli, l’Islam ammette l’esistenza di Iblîs, il demonio, un angelo che, dopo avere disubbidito a Dio ed essersi rifiutato di prostrarsi davanti al primo uomo Adamo, fu cacciato dal Paradiso e maledetto in eterno. A livello popolare è molto sentita anche la credenza negli jinn, esseri incorporei invisibili nati dal fuoco che si occupano ampiamente delle vicende umane e sono essi stessi delle entità a metà strada fra gli angeli e gli uomini.

I doveri fondamentali del culto

I doveri fondamentali del culto islamico si possono riassumere nei cosiddetti cinque pilastri della fede, ovvero le cinque pratiche che il pio musulmano deve compiere: la professione di fede, la preghiera, l’elemosina, il pellegrinaggio e il digiuno.

1.            La shahâda, o testimonianza di fede, è la testimonianza resa con la parola a Dio unico e a Muhammad come suo inviato: “Testimonio che non vi è dio se non Iddio e testimonio che Muhammad è l’inviato di Dio”. Tale formula permea tutta la vita musulmana ed è pronunciata dal neofita al momento di accettare la religione dell’Islam davanti a testimoni che ne redigono l’atto che poi è firmato. È recitata costantemente nella preghiera quotidiana e nei momenti chiave della vita, soprattutto in punto di morte, nelle calamità, prima di un affare importante.

2.            La preghiera, o salât – il secondo pilastro dell’Islam -, consiste nella preghiera rituale che si distingue dalle preghiere personali (du’â’) facoltative. È richiesta ufficialmente dal Corano stesso e deve essere compiuta a ore determinate con gesti e formule prestabilite, e versi del Corano scelti liberamente dal fedele. Le cinque preghiere giornaliere da compiere e i tempi in cui vanno compiute sono rigorosamente stabiliti dalla legge. Poiché “tutta la Terra è una moschea” si può pregare all’ora giusta in qualsiasi luogo ci si trovi purché questo sia puro. Per simboleggiare il distacco dalla Terra e dalle sozzure del mondo il pio musulmano normalmente utilizza un tappeto che spesso è bordato di frasi coraniche: simboleggia “il sacro suolo della Mecca” e la separazione dal mondo. Per prepararsi alla preghiera è molto importante quindi la preparazione o purificazione (tahâra), o meglio ancora “stato di purità legale”, che si può trovare attraverso il wudû’ o “abluzione” di alcune parti del corpo se l’impurità è “minore” (ovvero determinata da necessità fisiologiche, contatto con persone o cose considerate impure, una colpa leggera, un sonno profondo, un eccesso d’ira, e così via); o con la “lavanda generale del corpo” o ghusl se si era in stato di impurità maggiore (dopo il parto, relazioni sessuali, adulterio, calunnia e altre colpe gravi). Nel cortile delle moschee è facile trovare le mi’da’ah o anche midah: impianti con quantità d’acqua sufficiente per le abluzioni, terminate le quali, il fedele si deve collocare in modo che il suo volto guardi verso la Mecca. Questa direzione è detta qibla e, negli edifici destinati alla salât, è per lo più segnata mediante una nicchia posta nella parete accanto alla quale si trova il pulpito (il cosiddetto mihrâb) su cui l’imām si pone per pronunciare il sermone del venerdì. Solo al venerdì, per la preghiera del mezzogiorno, è obbligatorio ritrovarsi nella moschea. La preghiera è preceduta dal richiamo dall’alto del minareto da parte del mu’azzin (adhân). Assistere allo speciale servizio divino che di venerdì tiene le veci della preghiera giornaliera del mezzogiorno è, secondo la legge, un dovere religioso di tutti i musulmani maschi e maggiorenni che si considerano residenti in una data località. L’imām, in questo contesto, è colui che guida la preghiera del venerdì all’interno della moschea e pronuncia il sermone. Nell’Islam sunnita è semplicemente un fedele che, dotato di particolare conoscenza del Corano e di buone capacità oratorie, aiuta i suoi fratelli nella fede a lodare Dio, a ricordare i doveri del fedele musulmano e a impegnarsi in un sincero cammino di miglioramento della propria vita. Può essere qualsiasi fedele purché dotato delle necessarie conoscenze. Nell’Islam non esiste infatti nessuna forma di sacerdozio, tanto meno ministeriale. Oltre alla preghiera legale, personale o comunitaria, l’Islam prevede una serie numerosa di preghiere individuali che possono essere per i defunti, per la pioggia, per chiedere, per supplicare, per lodare, per ringraziare Dio. Questi tipi di preghiera sono espressi con il cuore dal musulmano fedele, con formule personali e non necessitano di espressioni rituali prescritte.

3.            La zakât è l’elemosina o decima, e precisamente non quella volontaria, detta sadaqah, ma quella imposta dalla legge e alla quale i poveri hanno diritto. Oggi però, venuta meno quasi ovunque la legislazione sull’elemosina legale, zakât e sadaqah tendono qualche volta a identificarsi.

4.            Il digiuno, o sawm, è il quarto pilastro dell’Islam. Il digiuno legale dura un intero mese, il mese di ramadân, è prescritto dal sorgere del sole al tramonto e annunciato dal mu’azzin. Digiunare per il musulmano significa astenersi completamente non solo da cibo e bevande di ogni sorta ma anche dall’unione coniugale con la propria moglie. Ramadân è un mese lunare e ogni anno si sposta quindi in avanti di undici-dodici giorni. Corrisponde, al mese della rivelazione del Corano, avvenuta nella notte fra il 26 e il 27 del mese di ramadân del 610.

5.            Quanto al pellegrinaggio alla Mecca, o hâjj, deve essere compiuto almeno una volta durante la vita da ogni musulmano che ne abbia la possibilità. Il pellegrinaggio rituale alla Mecca deve essere fatto in uno speciale momento dell’anno (nel mese Dhû-‘l-Hijja) e deve seguire una ritualità stabilita dagli antichi testi tradizionali; si distingue dal piccolo pellegrinaggio o visita alla città santa che può essere fatta in qualsiasi momento dell’anno.

Un ulteriore importante dovere per i musulmani è rappresentato dalla jihâd nel suo significato di “guerra”. Il Corano vieta la guerra anche per risolvere dispute internazionali e non menziona mai l’espressione “guerra santa”, ma autorizza i musulmani a entrare in guerra contro coloro che li combattano in virtù della loro religione. Mentre i precedenti cinque pilastri della fede sono, secondo il diritto musulmano, fard ‘ayn, ovvero obblighi del singolo, la jihad è fard kifâya ovvero è un dovere obbligatorio solo collettivamente. È sufficiente che un gruppo, anche se esiguo, lo ottemperi perché tutti siano esonerati. Secondo alcune interpretazioni è sufficiente che uno Stato organizzi bene il proprio esercito come difesa del territorio islamico perché sia assolto il dovere della jihad. È molto netta, fin dalle origini, la distinzione fra il territorio musulmano (dâr al-Islam) e quello degli infedeli (dâr al-harb, territorio di guerra) che deve essere conquistato alla vera fede. Oggi non si pensa più alla conquista militare come tramite di conversioni, ma si continua a insegnare che in caso di attacco da parte degli infedeli il dovere comunitario diventa dovere di ogni singolo fedele per la difesa del sacro suolo dell’Islam.

Peraltro, nonostante i riferimenti bellici che sono stati attribuiti al termine jihad, questa parola significa letteralmente “sforzarsi sulla via di Dio” e quindi si deve distinguere fra una guerra interiore, personale, di conversione, e una guerra esterna, cruenta. Le scuole di impostazione più spirituale, e soprattutto il mondo del sufismo, hanno sempre messo in secondo piano la jihad materiale, preferendo porre l’accento sulla “guerra interiore” che ogni fedele deve combattere per convertirsi e avvicinarsi al volere di Dio.

Nell’Islam vi sono altre regole, o prescrizioni, fra l’altro per i momenti cruciali della vita dell’uomo: nascita, matrimonio, morte. Nella società tribale pre-islamica l’uomo poteva avere un numero illimitato di mogli. Poteva ripudiarle senza motivo, né testimoni, né risarcimento, né mantenimento dei figli. Il Corano ammette la poligamia, ma limita a quattro il numero massimo delle mogli. Il matrimonio è un rito compiuto in forma semplice, giuridicamente un contratto fra lo sposo e il walî o rappresentante legale della sposa, della quale però è in genere (ma non ovunque) obbligatorio il consenso. Oggi è richiesta anche la presenza fisica della donna e l’esplicitazione da parte sua del consenso all’unione matrimoniale. Inoltre la donna può fare includere nel contratto matrimoniale una clausola che escluda la poligamia o che le garantisca il ripudio in caso di nuovo matrimonio non desiderato da parte del marito.

Oggi è molto discussa la poligamia e in molti contesti culturali sta scomparendo o addirittura – come in Tunisia – è vietata. Chi tende a contestare la liceità delle quattro mogli fa riferimento al versetto coranico in cui Muhammad obbliga il marito a trattare nello stesso modo tutte le donne che entreranno sotto il suo tetto (il che, si sostiene, è oggi praticamente impossibile). Alcuni poi insistono sul fatto che l’uguale trattamento si riferisce all’affetto e alle attenzioni, mentre altri allargano il concetto anche ai beni materiali quali le camere dell’appartamento, i vestiti, i gioielli, e così via. La legge ammette il matrimonio di un uomo musulmano con donne delle “genti del Libro” (ebree o cristiane), ma non viceversa. Il ripudio della moglie da parte del marito è piuttosto facile. Anche la moglie può chiedere la separazione ma necessita di un giudice, o qâdî, e le è permesso solo in casi gravi quali maltrattamenti, malattia del marito, abbandono, e ora anche poligamia indesiderata.

In caso di morte del credente la legge prevede le seguenti quattro operazioni: 1) l’abluzione completa dal cadavere; 2) l’avvolgimento del cadavere in sudari; 3) la preghiera dei morti; 4) il seppellimento vero e proprio. È inoltre usanza celebrare un banchetto funebre il settimo e il quarantesimo giorno dopo la morte, ma non nel giorno del seppellimento.

Vi sono inoltre alcune regole di comportamento riconosciute da tutto il mondo islamico. In teoria divieti categorici riguardano l’usura e il prestito a interesse su cui oggi vi è un attento dibattito, vista l’importanza acquisita in tutto il mondo dalle operazioni bancarie. Le bevande alcoliche sono anch’esse vietate, anche se alcuni interpreti (considerati dai più lassisti) ritengono che il loro uso sia lecito e sia invece solo categoricamente vietato l’ubriacarsi. Per quanto concerne i cibi, il testo sacro è molto esplicito ed esclude la possibilità di consumare la carne di maiale, degli animali morti di morte naturale, il sangue e le carni macellate in modo improprio. È previsto infatti un attento rituale per l’uccisione degli animali, molto simile a quello usato presso gli ebrei, che consiste in un taglio deciso alla base del collo dopo avere rivolto il capo della bestia verso la Mecca e avere pronunciato l’invocazione bi’smi Llâhi (“in nome di Dio”). Il taglio netto all’altezza della giugulare ha lo scopo di far defluire la maggior quantità possibile di sangue dal corpo dell’animale affinché non vi sia coagulazione interna.

Inoltre nei primi secoli furono vietate severamente anche le pitture e le sculture che riproducessero Dio, gli angeli e anche gli uomini per evitare che vi fosse un ripiego idolatrico e la rinascita di forme politeistiche di devozione popolare. Per questo la civiltà islamica vide fiorire l’arte degli arabeschi, ovvero l’uso della scrittura per adornare strutture architettoniche e libri. Da tempo ormai i divieti in proposito si sono molto attenuati e, sebbene rimanga la proibizione verso la raffigurazione della divinità, sono permesse sia la pittura sia la scultura della figura umana, anche se negli ambienti più conservatori permane una certa diffidenza.

L’islam sunnita in Italia

A prescindere da presenze antiche e medievali, che hanno lasciato importanti tracce monumentali in Sicilia e altrove, l’Islam sunnita moderno in Italia è stato una realtà modesta fino alla fine degli anni 1960. In questo decennio comincia a organizzarsi una presenza di qualche centinaio di studenti (soprattutto siriani, giordani e palestinesi) che si aggiungono ai pochi uomini d’affari e al personale delle ambasciate. Alla fine degli anni 1960 si ha anche la prima presenza musulmana sunnita organizzata in Italia con la formazione della realtà studentesca che porta nel 1971 alla costituzione dell’USMI (Unione degli Studenti Musulmani d’Italia), che si sviluppa nelle città universitarie a partire da Perugia e nel decennio 1970-1980 apre una dozzina di luoghi di preghiera.

Nel frattempo a Roma si organizza il Centro Islamico Culturale d’Italia, il cui consiglio di amministrazione è composto prevalentemente da ambasciatori di paesi sunniti presso l’Italia o presso la Santa Sede; i progetti per una grande moschea a Roma sono avviati nel 1974 ma l’inaugurazione ufficiale seguirà solo nel 1995. Esiste così, fin dagli anni 1970, una distinzione – notata da diversi studiosi, anche se messa in discussione da altri – fra due forme di organizzazione dell’Islam sunnita italiano: l'”Islam delle moschee” e l'”Islam degli Stati”, distinzione che diventa più importante – come si vedrà nei paragrafi dedicati alle singole organizzazioni – con l’esplosione dell’immigrazione islamica degli ultimi tre decenni, che porta i musulmani sul territorio italiano a un numero stimato nel 2022 a 2.297.000 (nello stesso anno, nel mondo sono 2.007.352.000), di cui 1.769.000 immigrati, come precisato nel Dossier Statistico Immigrazione 2022 del Centro Studi e Ricerche IDOS, benché si tratti di un dato statistico sempre incerto e controverso.

Riguardo al numero di luoghi di culto, secondo un report del 2017 della Fondazione ISMU curato da Antonio Cuciniello, sulla base dei dati del Ministero degli Interni, in Italia sono state censite 1.205 strutture islamiche, tra cui 4 moschee, 858 luoghi di culto e 343 associazioni culturali, per un totale di 1.205: “il primato spetta alla Lombardia. Seguono l’Emilia Romagna, il Veneto, la Sicilia e il Lazio” (“Luoghi di culto islamici in Italia: tipologie e dati”, p. 6). Dieci anni prima, nel 2007, sulla base di aggiornamenti che Maria Bombardieri ed Enzo Pace avevano proposto a un censimento del Ministero degli Interni, se ne potevano rubricare 749, indicando come regioni più rappresentate la Lombardia (123), il Veneto (110) e l’Emilia-Romagna (104). Nel gergo giornalistico questi luoghi di culto sono impropriamente chiamati “moschee”, mentre perché si possa parlare di moschea si richiede la compresenza di tutta una serie di spazi rituali e organizzativi, di fatto presenti in Italia solo nella Grande Moschea di Roma, a Segrate – per l’esattezza, al confine fra il comune di Milano e quello di Segrate -, a Catania – dove l’edificio e quasi sempre chiuso per le vicissitudini del privato cittadino italiano che ne è proprietario – , a Palermo – con caratteristiche peraltro particolari, trattandosi di una ex chiesa cattolica ceduta dalla Curia di Palermo alla Regione Sicilia e da questa al governo tunisino, che la ha aperta al culto nel 1990 -, mentre altre sono in fase di completamento, di costruzione o di progettazione. Le moschee in senso proprio, in ogni caso, sono in Italia a tutt’oggi pochissime.

Quanto ai convertiti, si avanza spesso la cifra di diecimila, forse approssimata per eccesso: si deve inoltre tenere conto del fatto che molti si convertono formalmente al solo scopo di potere sposare una donna musulmana cittadina di un paese a maggioranza islamica (che, diversamente, spesso non otterrebbe i necessari documenti dalla sua ambasciata), ma non perseverano nella religione dopo il matrimonio.

Il problema della rappresentanza dei musulmani sunniti in Italia si intreccia con quello del “fondamentalismo”, nome che (sulla scia di espressioni straniere) gli studiosi attribuiscono a un vasto movimento di risveglio che nel corso del XX secolo intende reagire alla occidentalizzazione delle società islamiche, proponendone al contrario una nuova islamizzazione. Nella corrente fondamentalista è possibile però distinguere – sulla scia di Renzo Guolo – una tendenza “radicale”, che si propone la conquista del potere politico e quindi la islamizzazione “dall’alto”, e una “neo-tradizionalista”, che intende piuttosto costituire nella società (in genere attorno alle moschee) spazi integralmente islamizzati, capaci di promuovere una islamizzazione della società “dal basso”. La maggiore organizzazione fondamentalista è quella dei Fratelli Musulmani, fondata in Egitto nel 1928 da Hasan al-Banna (1906-1949), che si è gradualmente diffusa in tutto il mondo sunnita. Nel corso della dirigenza di Sayyid Qutb (1906-1966) tra i Fratelli Musulmani sono emerse tendenze radicali, che sono state però respinte dalla maggioranza del movimento dopo la morte di Qutb, giustiziato in Egitto nel 1966.

Dopo Qutb, i Fratelli Musulmani emergono come un movimento “neo-tradizionalista”, che in genere dichiara di rifiutare l’uso della violenza, da cui si separano movimenti radicali come al-Jama’a al-Islamiyya e al-Jihad. Nei paesi di emigrazione i Fratelli Musulmani sostituiscono all’ideale di una islamizzazione della società, che perseguono nei paesi a maggioranza islamica, quello della creazione di spazi islamizzati nella società, all’interno dei quali ai musulmani (sunniti) siano riconosciuti “diritti collettivi” e uno statuto comunitario specifico (con riferimento in particolare al diritto di famiglia). A livello internazionale i Fratelli Musulmani hanno avuto rapporti non facili con gli Stati, ma dopo la rivoluzione iraniana e il conseguente pericolo di un risveglio sciita molti osservatori hanno notato una “alleanza” non dichiarata fra i Fratelli e l’Arabia Saudita volta a contrastare la penetrazione sciita nel mondo sunnita (e che comprenderebbe l’accordo dei Fratelli a svolgere una limitata attività in Arabia Saudita e nei paesi da questa più direttamente influenzati). Ma nella prima Guerra del Golfo i Fratelli Musulmani e l’Arabia Saudita si sono collocati su posizioni opposte, e dopo l’11 settembre 2001 i rapporti si sono molto raffreddati.

Le stesse difficoltà sono emerse in Italia nei rapporti tra l’UCOII, l’organizzazione emersa dall’USMI che è più direttamente influenzata dai Fratelli Musulmani, e la Lega Musulmana Mondiale dove è forte l’influenza saudita. Nel 1982, per assicurare un certo carattere unitario all’organizzazione, era stato fondato un Consiglio Internazionale dei Fratelli Musulmani. Quest’organismo nel novembre 2004 – presente e consenziente il leader più autorevole dei Fratelli, l’egiziano Muhammad Mahdi ‘Akif (autorizzato per l’occasione dal regime egiziano, che pure lo aveva privato del passaporto, a recarsi all’estero) – è stato formalmente sciolto in una riunione tenuta nel Qatar. Naturalmente la fine del Consiglio Internazionale – di cui i Fratelli hanno del resto fatto a meno fra il 1928 e il 1982 – non significa la fine dell’organizzazione. Nessuno pensa evidentemente di scioglierne le branche nazionali. Quanto al coordinamento mondiale, lo scioglimento del Consiglio Internazionale segue la fondazione di un Consiglio Mondiale degli ‘Ulama Musulmani, molti dei quali membri dei Fratelli Musulmani o a loro vicini, presieduto dal tele-predicatore Yusuf al-Qaradawi e la cui sede è stata fissata nella tranquilla Dublino. Al-Qaradawi appartiene alla corrente cosiddetta “neo-fondamentalista”, legata anche al carismatico predicatore residente in Svizzera Tariq Ramadan, che si presenta come più “moderata” rispetto alle tradizionali posizioni dei Fratelli, ma mantiene sia un legame di fondo con le categorie neo-tradizionaliste sia posizioni assai critiche verso l’Occidente, talora mediate da un discorso movimentista e anti-globalista derivato dai no global europei.

Tanto dai Fratelli Musulmani quanto dalle organizzazioni legate all’Arabia Saudita si sono sempre differenziati in Occidente sia gruppi di musulmani sunniti filo-occidentali (rappresentati in Italia dalla CO.RE.IS. e, su scala assai minuscola, dall’AMI), sia paesi come il Marocco e l’Egitto che diffidano sia dei Fratelli Musulmani sia dei sauditi e che vorrebbero perseguire la logica di un “Islam degli Stati” che segue i propri cittadini all’estero anziché delegare la rappresentanza dell’Islam a organizzazioni “di base” sorte nei vari paesi occidentali e normalmente orientate in senso fondamentalista. Fra le espressioni italiane dell'”Islam degli Stati” si devono citare – oltre al sostegno della Libia all’Unione Islamica in Occidente – la “Moschea di Stato” di Palermo, gestita direttamente dal governo tunisino; l’Istituto Culturale Islamico (I.C.I.), sostenuto dall’Egitto; e la Missione Culturale dell’Ambasciata del Marocco, che sostiene diverse moschee “spontanee” che non aderiscono ad associazioni o federazioni.

L’Intesa con lo Stato italiano costituisce da anni un’aspirazione dei musulmani sunniti che vivono in Italia. Per lo Stato, uno dei problemi è stata l’identificazione di realtà islamiche effettivamente rappresentative; i contrasti fra l'”Islam delle moschee” e l'”Islam degli Stati” non hanno reso più facile la questione. Allo scopo dichiarato di risolvere questi problemi, il 15 aprile 2000 era stata formalizzata la costituzione dell’associazione Consiglio Islamico d’Italia, con lo scopo precipuo di dar vita a un organismo unitario di rappresentanza dell’Islam al fine di stipulare un’Intesa con lo Stato italiano e – una volta che tale Intesa fosse stata raggiunta – di curarne la esecuzione e le eventuali modifiche. Soci fondatori del Consiglio erano l’UCOII (che rappresenta l'”Islam delle moschee”), la sezione italiana della Lega Musulmana Mondiale (o “Lega del Mondo islamico”) e – dopo vari contrasti con la sua componente marocchina, non favorevole all’accordo – il Centro Islamico Culturale d’Italia, che rappresenta l'”Islam degli Stati”. L’accordo fra l’UCOII e la Lega Musulmana Mondiale era stato letto da vari osservatori come trasposizione sul piano italiano dell’alleanza tra i Fratelli Musulmani e l’Arabia Saudita. Presidente dell’organismo era l’ambasciatore Mario Scialoja (1930-2012), della Lega Musulmana Mondiale; vice-presidente Dachan Mohamed Nour, dell’UCOII, cittadino italiano e già esponente di rilievo dei Fratelli Musulmani siriani.

Il consiglio direttivo era composto da quattordici membri, sette in rappresentanza dell’UCOII, tre in rappresentanza del Centro Islamico Culturale d’Italia, tre in rappresentanza della Lega Musulmana Mondiale – Italia, e un membro in rappresentanza di comune accordo fra il Centro e la Lega. L’accordo creava un nuovo soggetto per la rappresentanza del mondo islamico (sunnita) italiano ed era stato interpretato come la saldatura – nonostante il dissenso marocchino – fra l'”Islam delle moschee” e quella parte dell'”Islam degli Stati” che è egemonizzata o almeno orientata dall’Arabia Saudita. Senonché anche sul Consiglio Islamico d’Italia si è abbattuto l’11 settembre 2001, e le difficoltà fra i Fratelli Musulmani e l’Arabia Saudita hanno travolto anche questo tentativo di rappresentanza unitaria italiana, che allo stato sembra sopravvivere solo sulla carta. Peraltro – senza che si trattasse di un organismo di rappresentanza, e anzi sottolineandone la funzione meramente consultiva – nel 2005 il Ministro dell’Interno Giuseppe Pisanu costituì una “Consulta per l’islam italiano” composta da esponenti della religione o della cultura islamica, metà dei quali cittadini italiani, che provenivano sia dal mondo della cultura e delle associazioni del cosiddetto “Islam laico”, sia dai dirigenti di alcune associazioni religiose. Per l’Islam sunnita si trattava di UCOII, Lega Musulmana Mondiale, CO.RE.IS. e UIO, cui si aggiungeva una presenza non sunnita rappresentata dalla presidentessa della Comunità Ismailita Italiana. Contrasti fra l’UCOII e le altre componenti determinarono difficoltà nel lavoro della Consulta specie nel suo secondo periodo di funzionamento, guidato dal Ministro dell’Interno Giuliano Amato. Il successivo titolare del Viminale, Roberto Maroni, ritenne di non proseguire l’esperienza della Consulta ma di costituire invece nel 2010 un Comitato per l’islam italiano, composto da esperti sia musulmani sia non musulmani, cooptati a titolo individuale e non in quanto rappresentanti di associazioni od organismi. Il Comitato, di cui non fanno parte esponenti dell’UCOII, ha assistito il governo e il Parlamento con la redazione di proposte e pareri in materie quali il velo integrale, le sale di culto, la formazione degli imam e l’associazionismo islamico. Nel 2012 il nuovo Ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri, sembra avere demandato alla nuova Conferenza Permanente “Religioni, Cultura e Integrazione”, istituita dal Ministro per la Cooperazione Internazionale e l’Integrazione Andrea Riccardi, almeno alcune delle competenze del Comitato per l’islam italiano. Non è forse casuale che solo due giorni dopo il primo incontro della Conferenza Permanente, del 19 marzo 2012, si sia assistito il successivo 21 marzo a Roma al congresso di fondazione della Confederazione Islamica Italiana, un nuovo organismo sostenuto dal governo del Marocco, che esclude i centri dell’UCOII e si candida a sua volta a diventare il principale interlocutore del governo italiano.

Accanto alle organizzazioni che aspirano a rappresentare, come si vede con alterne vicende, i musulmani sunniti italiani – appunto anche in vista di un’Intesa con lo Stato – vi sono in Italia altre presenze rilevanti: movimenti missionari (il più importante dei quali è quello dei Tabligh), confraternite (di cui si tratterà in tema di sufismo) e organizzazioni di tipo nazionale o socio-religioso.

B.: La bibliografia generale, anche solo in lingua italiana, è molto vasta. Fra i molti titoli, cfr. Mohammed Arkoun – Maurice Borrmans, Islam: religione e società, ERI, Torino 1980; Federico Peirone, Islam, Quiriniana, Brescia 1981; Alessandro Bausani, L’Islam, Garzanti, Milano 1987; Paolo Branca, Introduzione all’Islam, San Paolo, Cinisello Balsamo 1995; Silvia Scaranari Introvigne, L’Islam, Elle Di Ci, Leumann (Torino) 1998; Khaled Fuad Allam – Claudio Lo Jacono – Alberto Ventura, Islâm, a cura di Giovanni Filoramo, Laterza, Bari 1999; Augusto Tino Negri, I cristiani e l’islàm in Italia. Conoscere, capire, accogliere i musulmani, Elle Di Ci, Leumann (Torino) 2000; Centro Federico Peirone, L’Islam. Storia, dottrina, rapporti con il cristianesimo, Elledici, Leumann (Torino) 2004. Sul diritto: Giuseppe Caputo, Introduzione al Diritto Islamico, Giappichelli, Torino 1990. Sulle divisioni: Henri Laoust, Gli scismi nell’Islam, trad. it., ECIG, Genova 1990. Sull’Islam sunnita in Italia cfr. Stefano Allievi – Felice Dassetto, Il ritorno dell’Islam. I musulmani in Italia, Edizioni Lavoro, Roma 1993; Chantal Saint-Blancat (a cura di), L’Islam in Italia. Una presenza plurale, Edizioni Lavoro, Roma 1999; Silvio Ferrari (a cura di), Musulmani in Italia. La condizione giuridica delle comunità islamiche, Il Mulino, Bologna 2000; S. Allievi, Islam italiano. Viaggio nella seconda religione del paese, Einaudi, Torino 2003; Enzo Pace, Sociologia dell’islam, 2a ed., Carocci, Roma 2004. Tra le indagini regionali va segnalata quella di A. T. Negri e S. Scaranari, Musulmani in Piemonte. In moschea, al lavoro, nel contesto sociale, Guerini, Milano 2005. Su alcuni problemi politici sollevati dalla presenza di immigrati musulmani, cfr., in chiave critica, Giovanni Cantoni, Aspetti in ombra della legge sociale dell’islam. Per una critica della vulgata “islamicamente corretta”, Centro Studi “A. Cammarata”, San Cataldo (Caltanissetta) 2000. Sui convertiti italiani: S. Allievi, I nuovi musulmani. I convertiti all’Islam, Edizioni Lavoro, Roma 1999. Sul fondamentalismo: Massimo Introvigne, Fondamentalismi. I diversi volti dell’intransigenza religiosa, Piemme, Casale Monferrato (Alessandria) 2004.

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